Criteri di accesso al Fondo per l’assistenza alle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare

[Fonte: Camera dei Deputati]

(Vedi articolo)

Il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali l’11 novembre ha firmato il decreto che, in attuazione della legge “Dopo di noi” (legge 112/2016), individua i requisiti per l’accesso alle misure di assistenza, cura e protezione a carico del Fondo per l’assistenza alle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare, nonché la ripartizione alle Regioni delle risorse per l’anno 2016. Il decreto, sul quale è stata raggiunta l’intesa in Conferenza Unificata, è stato trasmesso per la firma al Ministro della Salute e al Ministro dell’Economia e delle Finanze.

Beneficiari: il decreto prevede che le persone con disabilità grave prive del sostegno familiare accedano agli interventi e servizi loro dedicati, previa valutazione multidimensionale, effettuata da equipe multi professionali (componente clinica e sociale) in coerenza con il sistema di classificazione ICF. Tale modalità appare transitoria; infatti, l’articolo 2, comma 1, del decreto  specifica che tale metodologia ha validità  in attesa della revisione delle procedure di accertamento della disabilità e della definizione di strumenti nazionali di valutazione. La valutazione multidimensionale è finalizzata alla definizione di un progetto personalizzato in grado di individuare gli specifici sostegni di cui il disabile grave necessita. Il progetto è definito con la più ampia partecipazione possibile del disabile; ove la persona disabile non sia in grado di esprimere pienamente la sua volontà, è sostenuto dai genitori o da chi ne tutela gli interessi.  Nel progetto viene comunque individuata una figura di riferimento  (case manager) che ne cura la realizzazione e il monitoraggio. In esito alla valutazione è garantita priorità di accesso a: persone con disabilità grave mancanti di entrambi i genitori, del tutto prive di risorse economiche reddituali e patrimoniali; disabili gravi con genitori non più in grado di garantire il sostegno genitoriale necessario; persone con disabilità grave inserite in strutture residenziali dalle caratteristiche lontane da quelle previste dal Dopo di noi.

Interventi e servizi: il decreto prevede percorsi di accompagnamento verso l’autonomia e l’uscita dal nucleo familiare in vista del venir meno del sostegno genitoriale. Per i disabili gravi privi di sostegno familiare  e pertanto già inseriti in un percorso di residenzialità extra-familiare vengono proposte soluzioni alloggiative deistituzionalizzate quali: l’abitazione di origine, o gruppi-appartamento o soluzioni di co-housing che riproducano le condizioni abitative e relazionali della casa familiare. In particolare deve trattarsi di soluzioni che offrano ospitalità a non più di 5 persone. In ogni caso , a valere sulle risorse del Fondo non sono previsti finanziamenti per strutture con singoli moduli abitativi che ospitino più di 5 persone, per un totale complessivo di non più di 10 persone.Gli interventi e i servizi non rispondono solo al soddisfacimento di bisogni abitativi; infatti i progetti personalizzati sono condivisi, ove possibile, con i servizi per il collocamento mirato, per possibilità di inserimento in programmi di politiche attive del lavoro, anche nella forma di tirocini. Sono tuttavia  finanziabili con le risorse del Fondo, in situazioni di emergenza, interventi di permanenza temporanea in strutture diverse da quelle appena descritte.  Tali situazioni di emergenza si inseriscono comunque in un percorso che identifica i tempi di rientro nel nucleo familiare e si limitano a valere sulle risorse del Fondo per la quota sociale. Le regioni promuovono interventi volti al riutilizzo di patrimoni resi disponibili dai familiari o da reti associative di familiari di disabili gravi.

Fondo: con le risorse possono essere finanziati i percorsi programmati di accompagnamento sopra illustrati; interventi di supporto alla domiciliarità nelle soluzioni alloggiative sopra illustrate; programmi di accrescimento della consapevolezza, di abitazione e di sviluppo delle competenze per la gestione della vita quotidiana e il raggiungimento dell’autonomia; interventi di realizzazione di innovative soluzioni alloggiative mediante il possibile pagamento degli oneri di acquisto, di locazione e di ristrutturazione e di messa in opera in opera degli impianti e delle attrezzature necessarie per il funzionamento degli alloggi stessi; in via residuale, interventi di permanenza  temporanea dovuta a situazioni di emergenza in strutture residenziali. Rimane valida, se gli interventi sono socio-sanitari, la sola copertura dei costi di rilevanza sociale a valere sul Fondo.

Erogazione e monitoraggio: la programmazione degli interventi si inserisce nella più generale programmazione per macro-livelli e obiettivi di servizio delle risorse afferenti al Fondo nazionale per le politiche sociali, nonché nella programmazione a valere sul Fondo per le non autosufficienze, secondo le modalità specificate nei relativi riparti. Le regioni trasmettono al Ministero del lavoro e delle politiche sociali, tutti  i dati necessari al monitoraggio dei flussi finanziari e dei trasferimenti effettuati e gli interventi finanziati con le risorse del Fondo.

“Dopo di Noi” – Disabili gravi privi di sostegno familiare

[Fonte: Camera dei Deputati]

(Vedi articolo)

La legge n. 112/2016 “Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilita’ grave prive del sostegno familiare” (qui l’iter parlamentare) deve essere inquadrata nel contesto normativo riferibile ai diritti delle persone con disabilità, in attuazione dei principi stabiliti dalla Costituzione, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità. Inoltre, nel rispetto delle competenze in tema di assistenza assegnate dalla Riforma del Titolo V ai diversi livelli di governo, il provvedimento si limita a delineare il quadro di obiettivi da raggiungere in maniera uniforme sul territorio nazionale. La legge 112/2016 è stata resa completamente applicabile dal decreto del 23 novembre 2016.

Con l’ espressione “dopo di noi” ci si riferisce al periodo di vita dei disabili successivo alla scomparsa dei genitori/familiari. Sul tema della vita indipendente, la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, all’articolo 19, sancisce “il diritto di tutte le persone con disabilità a vivere nella società, con la stessa libertà di scelta delle altre persone” invitando gli Stati parti ad adottare misure efficaci ed adeguate per facilitare il pieno godimento da parte delle persone con disabilità di tale diritto nonché la loro piena integrazione e partecipazione nella società. Per quanto riguarda la protezione giuridica delle persone con disabilità e loro autodeterminazione, la Convenzione Onu, all’articolo 12, prevede che gli Stati Parti adottino misure adeguate per consentire l’accesso da parte delle persone con disabilità al sostegno necessario ad esercitare la propria capacità giuridica. Nello spirito della Convenzione, tali misure devono:

  • rispettare i diritti, la volontà e le preferenze della persona disabile;
  • essere scevre da ogni conflitto di interesse e da ogni influenza indebita;
  • essere applicate per il più breve tempo possibile;
  • essere soggette a periodica revisione da parte di un’autorità competente, indipendente ed imparziale o da parte di un organo giudiziario.

La legge 104/1992 per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate ha dettato disposizioni in materia di diritti, integrazione sociale ed assistenza dei soggetti citati, allo scopo di agevolare, in coerenza con i principi di cui all’art. 3 della Costituzione, la loro partecipazione alla vita della collettività ed il loro inserimento nel mondo del lavoro, nonché la realizzazione dei diritti civili, politici e patrimoniali.
L’articolo 3, comma 3, della legge definisce come disabile grave la persona che, a causa di “minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione. Le situazioni riconosciute di gravità determinano priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici”.
Successivamente, la legge 21 maggio 1998, n.162, ha modificato la legge n. 104/1992, prevedendo programmi di aiuto alla persona, gestiti in forma indiretta, anche mediante piani personalizzati “allo scopo di garantire il diritto ad una vita indipendente alle persone con disabilità permanente e grave limitazione dell’autonomia personale nello svolgimento di una o più funzioni essenziali della vita” (articolo 39, comma 2, lettera l- ter, della legge n. 104/1992, come modificato dalla legge n. 162/1998). Per i disabili gravi senza sostegno del nucleo familiare, tali programmi di aiuto possono essere organizzati dai Comuni (articolo 10, comma 1- bis della legge n. 104/1992, come modificato dalla legge n. 162/1998). Da parte loro, le regioni possono programmare forme di assistenza domiciliare e di aiuto personale, anche della durata di 24 ore, come prestazioni integrative degli interventi realizzati dagli enti locali ( legge n. 104/1992, articolo 39, comma 2, lettera l-bis, come modificato dalla legge n. 162/1998). Infine, l’articolo 41- ter della legge n. 104/1992 dispone che il Ministero del lavoro e delle politiche sociali sociale promuova e coordini progetti sperimentali a favore di persone con handicap e che, con proprio decreto, definisca i criteri e le modalità per la presentazione e la valutazione di progetti sperimentali, nonché i criteri per la ripartizione dei fondi stanziati.
Come indicato dall’articolo 14 della legge n. 328/2000, le prestazioni per realizzare la piena integrazione delle persone disabili possono essere realizzate attraverso diverse tipologie di interventi: prestazioni di cura e di riabilitazione a carico del Servizio sanitario nazionale; servizi alla persona a cui provvede il comune in forma diretta o accreditata, con particolare riferimento al recupero e all’integrazione sociale; misure economiche necessarie per il superamento di condizioni di povertà, emarginazione ed esclusione sociale.
A partire da queste premesse, per la cura e l’assistenza dei disabili gravi privi di sostegno familiare, nelle diverse realtà regionali si sono diffusi modelli gestionali alternativi all’istituzionalizzazione in residenze sanitarie o socio-sanitarie. Nella maggior parte dei casi, tali modelli sono stati realizzati grazie allo strumento della fondazione partecipata, un istituto giuridico di diritto privato che si caratterizza per la presenza di uno scopo non modificabile nel tempo, che deve essere definito dai soci fondatori al momento della sottoscrizione dell’atto costitutivo.
Il Programma d’Azione Biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità, predisposto dall’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità, adottato nel dicembre 2013, prevede 7 sette linee di intervento che coprono trasversalmente gli aspetti più importanti per la realizzazione della piena inclusione nella vita sociale delle persone con disabilità, individuando per ogni intervento l’obiettivo e il tipo di azione necessaria per conseguirlo. La Linea di intervento 3 è dedicata alle Politiche, servizi e modelli organizzativi per la vita indipendente e l’inclusione nella società. Il programma sottolinea come, grazie all’indicazione di principio espressa dalla legge n. 162/1998, le Regioni hanno sperimentato e favorito, nel corso degli anni, una progettualità volta all’assistenza indiretta, all’incentivazione della domiciliarità e, pur in modo residuale, al supporto ai percorsi di autonomia personale. Un ruolo rimarchevole è stato ricoperto dai centri o servizi per la vita indipendente che hanno offerto alle persone e ai servizi pubblici un supporto alla progettazione individualizzata ma anche un aiuto per gli aspetti più pratici ed operativi nella gestione dell’assistenza indiretta.
Dato questo contesto normativo, le misure previste dalla legge legge n. 112/2016 rafforzano quanto già previsto in tema di progetti individuali per le persone disabili. Restano infatti salvi i livelli essenziali di assistenza e gli altri benefici previsti dalla legislazione vigente in favore delle persone disabili.
Più in dettaglio, la legge n. 112/2016, in attuazione dei principi costituzionali, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea  e della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, è diretta a favorire il benessere, l’inclusione e l’autonomia delle persone con disabilità ed agevola le erogazioni di soggetti privati e la costituzione di trust nonché di vincoli di destinazione di beni immobili e mobili registrati, nonché di fondi speciali in favore dei disabili.
Destinatari delle previste misure di assistenza, cura e protezione sono le persone con disabilità grave non determinata dal naturale invecchiamento o da patologie connesse alla senilità, prive di sostegno familiare, in quanto mancanti di entrambi i genitori o perché gli stessi non sono in grado di fornire l’adeguato sostegno genitoriale. In tal senso, le misure prevedono la progressiva presa in carico della persona disabile durante l’esistenza in vita dei genitori e devono essere definite con il coinvolgimento dei soggetti interessati e nel rispetto della volontà delle persone con disabilità grave, ove possibile, dei loro genitori o di chi ne tutela gli interessi.
In primo luogo, il provvedimento disciplina la procedura con cui definire i livelli essenziali delle prestazioni, da erogare in ambito sociale, ai disabili gravi privi di sostegno familiare. Conseguentemente, il decreto 23 novembre 2016, adottato previa intesa in sede di Conferenza unificata, ha definito, come richiesto dalla legge 112/2016,  gli obiettivi di servizio da erogare ai disabili gravi, nei limiti delle risorse a tal fine dedicate  a valere sullo specifico Fondo per l’assistenza alle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare.
Resta fermo che le regioni e le province autonome assicurano l’assistenza sanitaria e sociale alle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare garantendo, nell’ambito territoriale di competenza, i macrolivelli di assistenza ospedaliera, di assistenza territoriale e di prevenzione, riferibili ai LEA in ambito sanitario.
Per quanto riguarda le risorse dedicate, la legge 112/2016 ha istituito, presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, il Fondo per l’assistenza alle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare, con una dotazione di 90 milioni di euro per il 2016, 38,3 milioni di euro per il 2017 e in 56,1 milioni di euro annui a decorrere dal 2018 (la legge di bilancio 2018 ha definanziato il Fondo di 5 milioni per il biennio 2018-2019). L’accesso alle misure di assistenza cura e protezione del Fondo è subordinata alla presenza dei requisiti individuati dal decreto 23 novembre 2016 che ha anche provveduto a ripartire tra le regioni le risorse (pari a 90 milioni) stanziate per il 2016 (qui una sintesi del decreto 23 novembre 2016).
Il Fondo è destinato all’attuazione degli obbiettivi di servizio, e, tra gli altri, a realizzare programmi ed interventi innovativi di residenzialità diretti alla creazione di strutture alloggiative di tipo familiare o di analoghe soluzioni  residenziali previste dalle leggi regionali,  a realizzare interventi di permanenza temporanea in una soluzione abitativa extrafamiliare per far fronte ad eventuali emergenze, nonché a sviluppare programmi di accrescimento della consapevolezza, di abilitazione e di sviluppo delle competenze per la gestione della vita quotidiana e per il raggiungimento del maggior livello di autonomia possibile da parte dei dei disabili gravi. Al finanziamento dei programmi e degli interventi citati possono concorrere le regioni, gli enti locali, gli organismi del terzo settore nonché altri soggetti di diritto privato.
La legge 112/2016 disciplina inoltre la detraibilità delle spese sostenute per le polizze assicurative finalizzate alla tutela delle persone con disabilità grave, con l’incremento da 530 a 750 euro della detraibilità dei premi per assicurazioni versati per rischi di morte nonché le esenzioni ed agevolazioni tributarie per i seguenti negozi giuridici, destinati in favore di disabili gravi (come definiti dall’art. 3 della legge n. 104 del 1992):

  • costituzione di trust;
  • costituzione di vincoli di destinazione di beni immobili o di beni mobili iscritti in pubblici registri, mediante atto in forma pubblica, ai sensi dell’art. 2645-ter del codice civile (con conseguente limitazione dell’impiego dei beni conferiti e dei loro frutti per il solo scopo sottostante il vincolo).
  • costituzione di fondi speciali, composti da beni sottoposti a vincolo di destinazione e disciplinati con contratto di affidamento fiduciario. L’affidatario può essere anche un’organizzazione non lucrativa di utilità sociale (ONLUS), che operi prevalentemente nel settore della beneficenza. Tali atti non devono essere assoggettati ad imposta di successione e donazione.
    Viene poi specificato che le esenzioni ed agevolazioni sono ammesse a condizione che il negozio giuridico persegua come finalità esclusiva (espressamente indicata nell’atto) l’inclusione sociale, la cura e l’assistenza di uno o più disabili gravi beneficiari. Sono state poi definite le ulteriori condizioni che devono sussistere, congiuntamente, per fruire delle esenzioni ed agevolazioni. In particolare, si richiede che il negozio giuridico:
  • sia fatto per atto pubblico;
  • identifichi in modo univoco i soggetti coinvolti ed i rispettivi ruoli, descriva funzionalità e bisogni dei disabili beneficiari, indichi le attività assistenziali necessarie a garantire la cura e la soddisfazione dei bisogni degli stessi soggetti, comprese le attività volte a ridurne il rischio di istituzionalizzazione;
  • individui gli obblighi del trustee, del gestore o del fiduciario, rispetto al progetto di vita e agli obiettivi di benessere che deve promuovere in favore del disabile grave, nonché gli obblighi e le modalità di rendicontazione;
  • contempli come beneficiari esclusivamente persone con disabilità grave;
  • destini i beni esclusivamente alla realizzazione delle finalità assistenziali oggetto del medesimo negozio giuridico;
  • individui il soggetto preposto al controllo delle obbligazioni imposte a carico del trustee, del gestore o del fiduciario;
  • identifichi il termine finale di durata del trust o del vincolo di destinazione o del fondo speciale nella data di morte del disabile e definisca la destinazione del patrimonio residuo.

E’ previsto che (per il periodo decorrente dal 1° gennaio 2017), in caso di premorienza del beneficiario rispetto ai soggetti che abbiano stipulato il negozio giuridico, i trasferimenti dei beni e di diritti reali in favore dei suddetti soggetti godano dell’esenzione dall’imposta sulle successioni e donazioni e le imposte di registro, ipotecarie e catastali si applichino in misura fissa. Resta ferma l’imposta sulle successioni e donazioni per i trasferimenti – alla morte del beneficiario – dei beni e di diritti reali in favore di altri soggetti, diversi da quelli che abbiano stipulato il negozio giuridico;  in tal caso, l’imposta è applicata facendo riferimento all’eventuale rapporto di parentela o di coniugio intercorrente tra disponente, fiduciante e destinatari del patrimonio residuo. Per i trasferimenti di beni e diritti in favore dei trust o dei fondi speciali e per gli atti di costituzione dei vincoli di destinazione le imposte di registro, ipotecarie e catastali si applichino in misura fissa. Gli atti, i documenti, le istanze, i contratti, nonché le copie dichiarate conformi, gli estratti, le certificazioni, le dichiarazioni e le attestazioni posti in essere o richiesti dal trustee, dal gestore o dal fiduciario siano esenti dall’imposta di bollo; anche tale esenzione si applica a decorrere dal 1° gennaio 2017. In caso di conferimento di immobili, o di diritti reali sugli stessi immobili, nei trust o nei fondi speciali in esame, i comuni possano stabilire per i soggetti passivi aliquote ridotte, franchigie o esenzioni ai fini dell’imposta municipale propria, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.  Viene riconosciuto, a decorrere dal periodo di imposta 2016 la deducibilità dal reddito complessivo del soggetto privato (anche diverso dalle persone fisiche) delle erogazioni liberali, delle donazioni e degli altri atti a titolo gratuito effettuati nei confronti dei trust o dei fondi speciali in esame, entro il duplice limite del 20% del reddito complessivo dichiarato e di 100.000 euro annui.
La modalità di attuazione di tali norme,  relative ad esenzioni ed agevolazioni fiscali, erano state demandate ad un decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, da emanare, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della legge. Il decreto non è stato emanato, creando incertezza sulle corrette procedure da seguire, finché, il rappresentante del Governo in risposta all’interrogazione 5-10627 Carnevali: Sulla mancata adozione del decreto di cui all’articolo 6, comma 11, della legge n. 112 del 2016, ha chiarito che l’articolo 6 della legge 112/2016 trova diretta applicazione senza che sia necessaria l’adozione di uno specifico decreto ministeriale (qui resoconto seduta del 30 marzo 2017 della Commissione XII).
Infine, sono state previste, rispettivamente, campagne informative a cura della Presidenza del Consiglio dei ministri per diffondere la conoscenza delle disposizioni della legge e delle altre forme di sostegno pubblico previste per le persone con disabilità grave, e la trasmissione annuale, da parte del Ministero del lavoro e delle politiche sociali di una relazione sullo stato di attuazione delle disposizioni in materia di assistenza ai disabili gravi privi di sostegno familiare (qui la Prima Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della legge 22 giugno 2016, n. 112 riferita agli anni 2016-2017).

Il progetto individuale per la persona con disabilità (art. 14 Legge 328/2000)

La legge n. 328/00 (“Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”) prevede che, affinché si ottenga in pieno l’integrazione scolastica, lavorativa, sociale e familiare della persona con disabilità, i singoli interventi di integrazione/inclusione siano tra loro coordinati, non solo per evitare inefficaci sovrapposizioni, ma soprattutto per indirizzare meglio l’insieme di tali interventi verso un’adeguata risposta alle particolari ed individuali esigenze della persona beneficiaria.
Il principale strumento è quello della predisposizione di progetti individuali per ogni singola “persona con disabilità fisica, psichica e/o sensoriale, stabilizzata o progressiva (art. 3, L. 104/92), attraverso i quali poter creare percorsi personalizzati per ciascuno in cui i vari interventi siano coordinati in maniera mirata, massimizzando così i benefici effetti degli stessi e riuscendo, diversamente da interventi settoriali e tra loro disgiunti, a rispondere in maniera complessiva ai bisogni ed alle aspirazioni del beneficiario.
Nello specifico, secondo la L. 328/00, il Comune deve predisporre, d’intesa con la A.S.L., un progetto individuale, indicando i vari interventi sanitari, socio-sanitari e socio-assistenziali di cui possa aver bisogno la persona con disabilità, nonché le modalità di una loro interazione.
Attraverso tale innovativo approccio si guarda alla persona con disabilità non più come ad un semplice utente di singoli servizi, ma come ad una persona con le sue esigenze, i suoi interessi e le sue potenzialità da alimentare e promuovere.
Occorre, infatti, pensare al progetto individuale non solo come documento che descrive “ciò che si può fare oggi” ma come un atto di pianificazione che si articola nel tempo e sulla cui base le Istituzioni, la persona, la famiglia e la stessa Comunità territoriale possono/devono cercare di creare le condizioni affinché quegli interventi, quei servizi e quelle azioni positive si possano effettivamente compiere.
Tutto ciò disegna un quadro istituzionale, organizzativo e professionale che presuppone:

CONTINUITA’ (nella presa in carico, nei passaggi di informazione tra gli operatori, nel perseguire in modo dinamico e critico gli obiettivi descritti nel progetto individuale)

GLOBALITA’ (nella definizione delle valutazioni – approccio ecologico)

AMPIEZZA E PROFONDITA’ (ampiezza della visione di insieme, profondità di analisi e nella messa a punto di modalità concrete che garantiscano il massimo coinvolgimento della persona e della famiglia)

Pertanto, per predisporre un efficace piano individuale dei vari interventi di integrazione/inclusione occorre partire da un’analisi completa di tutte le variabili, oggettive e soggettive, che ruotano attorno alla persona con disabilità:

  1. situazione sanitaria personale;
  2. situazione economico/culturale/sociale/lavorativa della persona con disabilità in apporto anche al proprio contesto familiare e sociale;
  3. situazione relazionale/affettiva/familiare;
  4. disponibilità personale della famiglia, amici, operatori sociali;
  5. interessi ed aspirazioni personali;
  6. servizi territoriali già utilizzati;
  7. servizi territoriali cui poter accedere nell’immediato futuro.

Stante la molteplicità dei succitati fattori, in gran parte non oggettivamente misurabili, e diversamente incidenti sulla situazione complessiva, la realizzazione di un progetto individuale deve essere attuata non attraverso meri adempimenti tecnico-amministrativi, ma con un’impostazione che abbia come stella polare la persona, in quanto tale.

Di conseguenza, sia nella fase progettuale che attuativa del progetto dovrebbero essere considerate imprescindibili le volontà della persona beneficiaria, della sua famiglia o di chi la rappresenta, maggiormente in grado di definire i suoi bisogni e gli interventi più adeguati al caso concreto.

Questo continuo dialogo tra la Pubblica Amministrazione da una parte e il centro d’interessi beneficiario/famiglia/rappresentante dall’altra è utile anche per “ripensare” il progetto qualora muti il quadro dei fattori sopra citati oppure vari l’incidenza del singolo fattore all’interno del quadro complessivo.

LA VALUTAZIONE DEL BISOGNO

La valutazione del bisogno potrebbe utilmente basarsi su quanto descritto all’art. 2 del Decreto Presidente Consiglio Ministri 14.02.2001 (atto di indirizzo e coordinamento per l’integrazione socio-sanitaria), ripreso e quindi parte integrante della normativa vigente in materia di livelli essenziali di assistenza (DPCM 29.11.2001 all. 1 C – integrazione sociosanitaria) che riportiamo di seguito:

Art. 2. Tipologia delle prestazioni

1. L’assistenza socio-sanitaria viene prestata alle persone che presentano bisogni di salute che richiedono prestazioni sanitarie ed azioni di protezione sociale, anche di lungo periodo, sulla base di progetti personalizzati redatti sulla scorta di valutazioni multidimensionali.

Le regioni disciplinano le modalità ed i criteri di definizione dei progetti assistenziali personalizzati.

2. Le prestazioni socio-sanitarie di cui all’art. 3-del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modifiche e integrazioni sono definite tenendo conto dei seguenti criteri: la natura del bisogno, la complessità e l’intensità dell’intervento assistenziale, la durata dell’intervento assistenziale

3. Ai fini della determinazione della natura del bisogno si tiene conto degli aspetti inerenti a:

  • funzioni psicofisiche;
  • natura delle attività del soggetto e relative limitazioni;
  • modalità di partecipazione alla vita sociale;
  • fattori di contesto ambientale e familiare che incidono nella risposta al bisogno e nel suo superamento.

4. L’intensità assistenziale è stabilita in base a fasi temporali che caratterizzano il progetto
personalizzato, così definite:

  • la fase intensiva, caratterizzata da un impegno riabilitativo specialistico di tipo diagnostico e terapeutico, di elevata complessità e di durata breve e definita, con modalità operative residenziali, semiresidenziali, ambulatoriali e domiciliari;
  • la fase estensiva, caratterizzata da una minore intensità terapeutica, tale comunque da richiedere una presa in carico specifica, a fronte di un programma assistenziale di medio o prolungato periodo definito;
  • la fase di lungoassistenza, finalizzata a mantenere l’autonomia funzionale possibile e a rallentare il suo deterioramento, nonché a favorire la partecipazione alla vita sociale, anche attraverso percorsi educativi.

5. La complessità dell’intervento è determinata con riferimento alla composizione dei fattori produttivi impiegati (professionali e di altra natura), e alla loro articolazione nel progetto personalizzato. Il provvedimento offre un contributo importante per ampliare e completare il disposto dell’art. 14 della L.328/00.

L’art. 2 fornisce infatti preziose indicazioni su come le tre macro-tipologie di prestazioni sociosanitarie (art. 3 septies D.Lgs 229/1999 “prestazioni sanitarie a rilievo sociale; prestazioni sociali e rilievo sanitario, prestazioni sociosanitarie ad elevata integrazione sanitaria”) possano essere identificate in un processo dinamico che deve portare a capire:

  • la natura del bisogno (utilizzando categorie molto simili e vicine alla struttura dell’ICF)
  • l’intensità assistenziale (fornendo descrizioni delle tre fasi di assistenza – intensiva-estensiva- di lunga durata)
  • la complessità dell’intervento (rapportando la composizione dei fattori produttivi impiegati in relazione al progetto individuale).

3. REDAZIONE DEL PROGETTO INDIVIDUALIZZATO – ELEMENTI   ESSENZIALI

3.1. Che cos’è la disabilità

Proponiamo quella che riteniamo sia la sola e unica definizione possibile, e cioè quella che, sul piano scientifico (OMS-ICF) e sul piano culturale e giuridico (Convenzione ONU) ha eliminato dal lessico degli operatori il termine “handicap”:

  • la disabilità è una condizione di vita determinata dal rapporto tra la persona e il suo ambiente;
  • laddove la condizione di vita è caratterizzata da un determinato funzionamento (condizionato da menomazioni o patologie) e laddove l’ambiente sia sfavorevole a tale funzionamento si genera la disabilità;
  • la disabilità è pertanto la risultante di una relazione (persona/ambiente sfavorevole) condizionata da trattamenti differenti ingiustificati (discriminazione) e da carenza di pari opportunità;
  • ne consegue che il progetto individuale va ripensato come il documento programmatico dei diritti umani della persona con disabilità.

3.2. Cambiare modello

In altre parole ancora si tratta di assumere come base comune di ragionamento e di azione il passaggio dal modello medico al modello bio-psico-sociale.

MODELLO MEDICO

  1. Le persone con disabilità sono malate, invalide.
  2. Il trattamento delle persone con disabilità è la guarigione possibile, perseguita in luoghi separati e speciali e in contesti prevalentemente medici o assistenziali.
  3. Le competenze necessarie per i trattamenti a favore delle persone con disabilità sono prevalentemente sanitarie.

MODELLO    BIO-PSICO-SOCIALE

  1. Le persone con disabilità vivono soprattutto discriminazioni e mancanza di pari opportunità: Il trattamento più efficace è l’inclusione sociale.
  2. Le competenze “inclusive” sono di tutti i settori della  società e coinvolgono risorse umane e culturali, anche non specialistiche, bensì diffuse, informali e comunitarie.

3.3. Discriminazione e carenze di pari opportunità (redigere la mappa delle discriminazioni e delle carenze di pari opportunità)

Il terreno di confronto su cui operatori, amministratori, familiari, persone con disabilità e Comunità locali devono misurarsi è pertanto quello delle azioni di contrasto alle discriminazioni e alle carenze di pari opportunità.
“La Classificazione Internazionale del Funzionamento della Disabilità e della Salute” (ICF) individua infatti come discriminazione e violazione dei diritti umani delle persone con disabilità ogni ingiustificato impedimento.Ciò significa che, per trattare il tema della presa in carico secondo la prospettiva del modello bio-psico-sociale, siamo tutti chiamati ad allargare il nostro orizzonte culturale e contemporaneamente ad approfondire il nostro sguardo sulla condizione esistenziale delle persone con disabilità.
Allargare l’orizzonte culturale determina due conseguenze immediate dal punto di vista giuridico e dell’azione politica e sociale:
dal punto di vista giuridico la presa in carico delle persone con disabilità non consiste più soltanto nel garantire ad esse il diritto a determinate cure, servizi, agevolazioni, provvidenze, interventi più o meno personalizzati, ma diventa a tutti gli effetti una strategia tesa alla tutela dei diritti umani;
dal punto di vista dell’azione di politica sociale il processo di presa in carico non riflette più soltanto il bisogno di “curare”, “assistere”, “sostenere”, “prendersi cura”, ma implica un impegno più largo e diffuso che va oltre l’intervento diretto alla persona e richiede un’azione di cura indirizzata alla comunità di cui la persona è parte.
Prendersi cura della persona con disabilità significa proprio rovesciare il paradigma: curare il territorio per curare le persone, andando oltre l’erogazione dei servizi alla persona. Significa che prima del contenitore (il servizio, la risposta, l’intervento) si deve porre al centro del sistema la difesa della dignità personale e il suo diritto a rimanere da protagonista, e non da fruitore, nella propria comunità.
Provocatoriamente, in questa prospettiva appare lecito porsi degli interrogativi sulla presa in carico: Chi deve essere preso in carico? La persona con disabilità? La sua famiglia? I suoi vicini di casa? I suoi operatori? I suoi amministratori ?

3.4. Individuale e personale non sono sinonimi
Alla luce del nuovo modello bio-psico-sociale, il progetto deve essere “individuale”, in quanto riferito ad un solo ed unico soggetto, ma al tempo stesso “personale”, in quanto capace di rappresentare il soggetto in relazione con il suo mondo (materiale e immateriale: accesso e partecipazione in autonomia ai contesti di vita)
Progetto personale significa concepire un progetto di presa in carico capace di propiziare la cultura della relazione di aiuto, nella prospettiva di riconoscere e valorizzare i fattori che determinano condizioni favorenti il “divenire esistenziale”. In sintesi, bisogna stabilire una relazione tra livelli essenziali delle prestazioni e livelli esistenziali dei contesti di vita, evitando di incorrere nei seguenti errori:

  • non basta offrire soluzioni esterne o “organizzative” spesso slegate, statiche, cristallizzate, che inducono fatica e scarse risposte capaci di orientare il futuro della persona e della famiglia;
  • le relazioni significative: spesso si è più attenti all’aspetto funzionale della collocazione degli operatori che non alla “significatività” della relazione che essi sono in grado di instaurare con la persona con disabilità;
  • i luoghi e gli spazi di vita: vengono attuati spesso “rapidi” cambiamenti, dovuti ad eventi amministrativi (valutazione stato di autosufficienza parziale – non autosufficienza totale, differenziate situazioni familiari), senza una reale attenzione al senso della vita personale;
  • la continuità storica del sé: spesso è minacciata dal rapido cambiamento di quelle situazioni esterne che aiutano la persona a mantenere, anche se debole, la propria immagine;
  • l’appartenenza e la vivibilità del contesto (anche riabilitativo): il senso di non appartenenza e le non idonee condizioni di vivibilità ambientali possono sminuire, a volte anche drammaticamente, il senso e il valore della propria esistenza. Si tratta di dimensioni, “personali”, spesso rimosse e anche censurate dalla cultura corrente, talvolta anche con l’alibi della cura e della riabilitazione.

3.5. Valutare anche la vita materiale della persona e della famiglia
Sgombriamo subito il campo da possibili equivoci: non stiamo parlando qui della questione del concorso alla spesa da parte della persona/famiglia. Vogliamo mettere in evidenza, come peraltro fa la L.328/2000 (art. 14 secondo comma), che :”… il progetto individuale comprende…- anche – le misure economiche necessarie per il superamento di condizioni di povertà, emarginazione ed esclusione sociale. Nel progetto individuale sono definiti le potenzialità e gli eventuali sostegni per il nucleo familiare, la necessità di tenere conto di quanto la disabilità incide nella vita materiale della persona e della famiglia. Non essendo possibile qui approfondire il tema dei metodi utili a determinare la dimensione, l’intensità e la durata dei processi di impoverimento che contribuiscono all’incremento dei fenomeni di esclusione sociale a danno delle persone e delle famiglie, ci interessa evidenziare sino a che livello di profondità la presenza della disabilità in famiglia produce impoverimento dal punto di vista materiale. Tutto ciò vuol dire non dare per scontato e non dimenticarsi degli effetti della disabilità sull’economia familiare e sulle sue – legittime – previsioni e aspirazioni.

3.6. Non solo coordinamento, ma azioni integrate
Promuovere l’inclusione, curare la comunità per curare le persone, pensare non solo in termini di servizi e prestazioni, ma complessivamente alle azioni utili a rimuovere le discriminazioni: l’aumento di consapevolezza che la Convenzione ONU chiede a tutti i soggetti civici (istituzioni, cittadini, organizzazioni sociali) deve andare nella direzione di ricercare non solo – o non tanto – l’efficienza dell’agire (il coordinamento), ma l’efficacia delle azioni (l’integrazione).
Occorre che la redazione di un progetto globale di presa in carico “abitui” l’Amministrazione Comunale a integrare le politiche tra loro. Se si parla di “abitare”occorre sviluppare una coscienza urbanistica che si deve coniugare con le risorse e le possibilità offerte dalle reti comunitarie di aiuto e sostegno alla domiciliarietà, anche per persone con disabilità complesse. Se si parla di “lavoro” occorre che le competenze degli Assessorati al Commercio e alle Attività Produttive comprendano i problemi e le esigenze delle persone con disabilità all’interno dei loro programmi. Coordinare è cosa ben diversa che pensare in modo inclusivo.

3.7. Accrescere l’empowerment
Empowerment=esprimere l’accrescimento del potere da parte della persona (o della comunità) nei confronti del proprio futuro, della propria crescita. Potrebbe essere accostato alla parola d’ordine che più di ogni altra rappresenta la crescita vissuta in questi anni dal movimento delle persone con disabilità: ”niente su di noi senza di noi”. Questo passaggio è cruciale: “accrescere l’empowerment” deve corrispondere ad un aumento vero del potere contrattuale della persona con disabilità e di chi la rappresenta. Senza questo passaggio concreto, misurabile, effettivo, ogni discorso sin qui fatto perde di sostanza e significato, mantenendo inalterata la distanza tra: ciò che è DIRITTO e ciò che è CONCESSO.
Occorre che la Pubblica Amministrazione si ponga la domanda: in che modo il cittadino/familiare/amministratore di sostegno può esercitare l’azione di tutela dei propri diritti? Nulla di nuovo, certo, perché non si sta parlando di altro se non di quanto già la normativa vigente in materia di tutela dei diritti del cittadino nei confronti della Pubblica Amministrazione prevede: (“DPCM 27.02.1994 – principi sull’erogazione dei servizi pubblici” e D.Lgs.267/2000 artt. 8; 10; 11; 12).
L’auto-tutela dei diritti delle persone con disabilità non è un fatto né scontato né semplice:occorrono sostegni e aiuti da erogare alla persona/famiglia/amministratore di sostegno, nella consapevolezza che tali sostegni potrebbero tradursi in azioni contro la pubblica amministrazione.

3.8. Serve un luogo
In via generale, riteniamo che il luogo istituzionale – naturalmente oltre che giuridicamente – deputato a redigere, accogliere e monitorare l’andamento del progetto globale individuale sia il Comune di residenza della persona con disabilità. In relazione ad altri elementi (p.e. l’età), altri luoghi istituzionali potrebbero divenire il punto di riferimento primario della progettazione individuale.

3.9. Serve un codice condiviso
…per valutare la condizione della persona, al fine di predisporre il Progetto Globale di Presa in Carico. Si tratta anche qui di affermare la necessità di un codice (da intendersi come paradigma ermeneutico) condiviso tra i vari attori e soggetti dei processi che si svolgono attorno alla persona disabile, non attuato per omogeneizzazione gerarchica, ma attraverso un processo di elaborazione a partire dai codici riconosciuti dai diversi soggetti. Da questo punto di vista, l’entrata in campo, oltre all’ICF, di altri sistemi convalidati sul piano scientifico, utili non solo alla definizione del livello di funzionamento, ma anche all’ individuazione dei sostegni, possono facilitare il compito degli operatori, dei familiari e della stessa Comunità. Facciamo riferimento allo strumento definito dall’ AAIDD – American Association on Intellectual and Developmental Disabilities – disponibile in Italia grazie al progetto L.383/2000 gestito da ANFFAS. Lo strumento è la SIS (Supports Intensity Scale – scala dell’intensità dei supporti).

3.10. Serve un referente
…… che si assuma la responsabilità del Progetto Globale di Presa in Carico, che rappresenti la dimensione del riferimento unitario, di fiducia della persona, affinché sia tutelato il principio dell’esigibilità dei diritti, la centralità della persona, la finalizzazione ultima dei progetti allo sviluppointegrato ed integrale della persona.
Il referente del Progetto Globale di Presa in Carico deve essere messo nella condizione di potere:
1) garantire il coordinamento tra il Progetto Globale e i Progetti Specifici (il progetto relativo al servizio frequentato dalla persona, il progetto riabilitativo, il progetto di inclusione scolastica, il progetto di collocamento mirato, il progetto di assistenza personale, ecc.)
2) essere il riferimento informativo nei confronti della persona e  della famigliaintervenire nei confronti dei diversi soggetti/attori che hanno un ruolo nello svolgimento del Progetto Globale, al fine di correggere eventuali errori, capirne la natura, proporre soluzioni, segnalare alla persona i motivi delle disfunzioni.

3.11. Serve un dossier unico
…. che soddisfi la dimensione di convergenza e la disponibilità delle informazioni, nel rispetto della tutela della privacy e della dignità della persona. Tale dossier nel concreto, attraverso diverse forme, dovrebbe raccogliere tutte le informazioni, gli atti, le anamnesi, le relazioni, le valutazioni di efficacia, le comunicazioni, le storie di vita e ogni altro elemento che costituisce la “memoria” del Progetto Globale e dei Progetti Specifici. È non solo un modo per razionalizzare il lavoro, ma per costituire fisicamente la “banca dati” del Progetto Globale, e per rendere evidente, anche da un punto di vista organizzativo e formale, l’obbligo per tutti gli attori/soggetti coinvolti di fare confluire in un unico luogo (istituzionale e funzionale) le informazioni e gli atti legati al proprio lavoro.

3.12. Serve un sistema di regole condiviso
Ammesso che tutto fin qui funzioni, nel momento in cui il motore parte serve un sistema di regole condiviso che regoli il traffico, la velocità e possa riparare gli inevitabili errori, inciampi, disguidi, incomprensioni. Soprattutto le regole servono per condurre in modo utile le azioni di verifica e di valutazione di esito del progetto globale di presa in carico. Le disponibilità individuali, la passione civica e professionale, la serietà di ciascuno non bastano. Occorre che le regole, per essere tali, siano non solo utili, ma una volta individuate e condivise vanno formalizzate con atti istituzionalmente validi. Un accordo di programma riteniamo abbia senso se dalla sperimentazione si potrà passare ad una prassi da consolidare. Un “semplice” protocollo che sigli l’intesa sulla conduzione della sperimentazione può bastare.

Integrazione sociosanitaria

[Fonte: Careonline.it – Autori: Silvia Casagrande e Maurizio Marceca – 30 dicembre 2006]

(Vedi articolo)

Introduzione

La parola integrazione ha sempre avuto un forte potere rappresentativo. La sua origine etimologica deriva da ‘intero’, come ‘non toccato’, intatto nella sua unità; allo stesso tempo, lo Zanichelli indica per il verbo integrare il “rendere completo aggiungendo ciò che manca”. Non è forse questo l’elemento chiave per avere un sistema sociosanitario il più possibile efficace?
In effetti, il concetto di integrazione sociosanitaria è previsto, da almeno un decennio, in tutte le pianificazioni di tipo sanitario e sociale; di fatto, però, resta difficile comprendere davvero le potenzialità e i contenuti che tale espressione porta con sé. Tentando di dare una definizione il più possibile completa, si può immaginare l’integrazione sociosanitaria come “il coordinamento tra interventi di natura sanitaria e interventi di natura sociale, a fronte di bisogni di salute molteplici e complessi, sulla base di progetti assistenziali personalizzati. Il raccordo tra politiche sociali e politiche sanitarie consente di dare risposte unitarie all’interno di percorsi assistenziali integrati, con il coinvolgimento e la valorizzazione di tutte le competenze e le risorse, istituzionali e non, presenti sul territorio”1. In altre parole, vi sono diverse situazioni in cui la capacità di raccordare interventi di natura sanitaria con interventi di natura sociale rafforza l’efficacia di entrambi.

L’integrazione sociosanitaria nella legislazione vigente

È a partire dal Decreto Legislativo n. 229 del 1999 che si inizia a dare forza al tema dell’integrazione sociosanitaria e si dà avvio ad una prima definizione delle prestazioni e dei principali attori coinvolti nell’organizzazione e nella gestione di tale forma assistenziale2-6.

Tuttavia, il riferimento normativo fondamentale in merito all’integrazione sociosanitaria è costituito dall’“Atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni sociosanitarie” (DPCM del 14 febbraio 2001).

Nel riquadro si riportano i principali provvedimenti legislativi che trattano di integrazione sociosanitaria, accompagnati da brevi riepiloghi tematici.

Una visione di sistema

Il sistema sanitario ed il sistema sociale, pur avendo intrapreso percorsi diversi e sperimentato fasi storiche non sovrapponibili, nascono e si sviluppano all’interno di una medesima prospettiva, vale a dire l’assunzione, da parte dell’intera collettività, della tutela del singolo individuo sancita nella Carta costituzionale e che ha prodotto il perseguimento del cosiddetto welfare2,5.

In effetti, l’organizzazione dell’assistenza sanitaria è divenuta ‘sistema’ nazionale nel 1978 (L. 833), all’interno di una visione della società di stampo solidaristico, ispirata all’art. 32 della Costituzione e strettamente connessa con altri interventi di tutela socioassistenziale, che solo nel 2000 (L. 328) sono confluiti in un vero e proprio ‘sistema’ sociale.

Il sistema del welfare attuale, articolato su tre livelli territoriali (Stato, Regioni, Comunità locali), è costituito dai soggetti presenti all’interno della rete (i cosiddetti ‘nodi’). Sia in ambito sociale che in quello sanitario vengono utilizzati i termini di ‘rete’ e di ‘integrazione’, presenti perché capaci di definire in modo efficace e sintetico alcune caratteristiche di fondo del funzionamento di tali organizzazioni.

Il Piano Sanitario Nazionale 1998-2000 (DPR 23 luglio 1998), richiamandosi alle conclusioni della ‘Commissione nazionale di studio sul tema dell’integrazione sociosanitaria’ (istituita con Decreto del Ministro della Sanità), definisce l’integrazione sociosanitaria quale priorità strategica cui destinare congrue risorse, da definire anche nei Piani regionali, attraverso lo sviluppo di Progetti obiettivo nella aree: materno-infantile, handicap, psichiatria, tossicodipendenze, anziani, lungodegenze4. È all’interno dello stesso Piano che si coglie un nuovo approccio che vede il superamento della visione dicotomica tra servizi sociali, di competenza degli Enti locali, e servizi sanitari, di competenza del Servizio Sanitario Nazionale. Il riconoscimento della necessità di sviluppare forme di partnership tra Distretti sociosanitari e Comuni comprende il bisogno di potenziare anche i livelli attraverso i quali ha luogo l’integrazione sociosanitaria: il livello istituzionale, che consente di definire i ‘patti per la salute’ sottoscritti tra i diversi attori; il livello gestionale, che garantisce l’adozione di modelli organizzativi coerenti, ed il livello professionale, che permette di armonizzare le competenze dei professionisti chiamati in causa nella realizzazione degli obiettivi di salute comuni3.

Già a partire dalle definizioni dei due servizi (intesi come ‘sistemi’), sociale e sanitario, si possono individuare degli elementi comuni.

1. Il Servizio Sanitario Nazionale è costituito dal “complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio” (L. 833/78, art. 1).

Per Servizio Sociale si intende, invece, “il complesso delle attività relative alla predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti ed a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita, escluse soltanto quelle assicurate dal sistema previdenziale e da quello sanitario, nonché quelle assicurate in sede di amministrazione della giustizia” (D.Lgs. 112/98, art. 128).

La prospettiva comune e la conseguente convergenza verso l’integrazione tra il settore sanitario e quello sociale traspare chiaramente anche da altri elementi che li caratterizzano.

2. Sia in ambito sanitario che sociale viene posta grande enfasi sulla pianificazione, tanto di livello nazionale, che regionale e locale. Da tempo sono in vigore Piani sanitari e Piani sociali nazionali e regionali. Sebbene le pianificazioni sanitarie e sociali siano nate distintamente, esistono già, in alcune Regioni, esperienze più o meno consolidate di effettiva pianificazione congiunta (in alcuni casi l’integrazione si ferma infatti al solo titolo del documento!). Piani sociosanitari possono essere attualmente riscontrati nelle seguenti Regioni: Valle D’Aosta, Piemonte (ancorché in fase di proposta per il periodo 2006-2010), Veneto, Lombardia e Sardegna. A livello locale, con l’emanazione della L. 328/00 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali), è stato istituito (art. 19) il ‘Piano di Zona’ (strumento di programmazione degli interventi e dei servizi sociali da parte degli Enti locali), fortemente ispirato allo stesso principio di ‘intersettorialità’ degli interventi che caratterizza il ‘Programma delle Attività territoriali’, istituito con l’art. 3-quater del D.Lgs. n. 229/99, che rappresenta lo strumento di pianificazione sanitaria locale più capillare sul territorio (all’interno del quale andrebbero programmati i servizi ad elevata integrazione sanitaria)7.

3. I due sistemi riconoscono inoltre, come presupposto necessario, la garanzia ai cittadini di alcuni diritti essenziali. Prendendo spunto dalla definizione dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) sanitari (DPCM 29 novembre 2001), anche il servizio sociale ha infatti ritenuto importante definire i Livelli essenziali delle prestazioni sociali (detti LIVEAS o LEP), che ad oggi, tuttavia, sono ancora in fase di determinazione da parte del Governo. Tale impostazione sembra aver suggerito anche alcune importanti soluzioni di ‘ingegneria costituzionale’ all’interno del processo di decentramento. Infatti, l’art. 117 della L.C. n. 3/2001, ha inserito la ‘Tutela della salute’ tra le materie di legislazione concorrente, in cui la potestà legislativa spetta alle Regioni, distinte da quelle di legislazione esclusiva, in cui lo Stato mantiene la piena potestà nel legiferare. L’area di competenza sociale non è espressamente prevista, ma alcune sue componenti sono di competenza esclusiva dello Stato (immigrazione, previdenza sociale), mentre altre (tutela e sicurezza del lavoro, istruzione) sono citate tra le materie di legislazione concorrente. Per tutte le materie di legislazione concorrente, in ogni caso, viene riconosciuta allo Stato la determinazione dei principi fondamentali, cioè dei “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, che evocano fortemente tanto i LEA quanto i LIVEAS. Sia i LEA che i LIVEAS rappresentano pertanto la specifica traduzione, per i rispettivi ambiti, delle garanzie del cittadino, cioè dei diritti sociali da questi esigibili.

4. e 5. Tra gli altri elementi che accomunano i due sistemi, è possibile citare l’enfasi riconosciuta all’integrazione gestionale e la forte sottolineatura (maggiore nel sociale), sulla necessità di favorire la partecipazione dei cittadini.

6. Una forte rilevanza viene altresì attribuita al processo di accreditamento, cioè di rispondenza a requisiti strutturali, tecnologici (in particolare per la sanità) ed organizzativi predefiniti, come sistema di garanzie di qualità per i cittadini.

7. Entrambi i sistemi, infine, riconoscono un ruolo strategico allo strumento della valutazione.

A partire da tali premesse, che dimostrano come in effetti il sistema sociale sia stato disegnato, in misura rilevante, sul modello di quello sanitario, risulta evidente l’esigenza
(e l’urgenza) di una reale integrazione sociosanitaria, resa ancor più necessaria dall’evoluzione dei bisogni e della domanda sociale, dai cambiamenti istituzionali, così come dai vincoli di sostenibilità economica.

PRINCIPALI PROVVEDIMENTI LEGISLATIVI RELATIVI ALL’INTEGRAZIONE SOCIOSANITARIA

  • DPR 23 luglio 1998. Approvazione del Piano sanitario nazionale per il triennio 1998-2000
    Si delineano i livelli dell’integrazione sociosanitaria e viene individuato nel Distretto, specificatamente nei servizi che lo compongono, il luogo primario per la sua realizzazione.
  • Decreto legislativo n. 229 del 19/6/1999. Norme per la razionalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale, a norma dell’articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419. Vengono descritte le ‘prestazioni sociosanitarie’ come “tutte le attività atte a soddisfare, mediante percorsi assistenziali integrati, bisogni di salute della persona che richiedono unitariamente prestazioni sanitarie e azioni di protezione sociale in grado di garantire, anche nel lungo periodo, la continuità tra le azioni di cura e quelle di riabilitazione” (art. 3- septies). Tali prestazioni comprendono: le ‘prestazioni sanitarie a rilevanza sociale’, le ‘prestazioni sociali a rilevanza sanitaria’, e le ‘prestazioni sociosanitarie ad elevata integrazione sanitaria’, cioè quelle “caratterizzate da particolare rilevanza terapeutica e intensità della componente sanitaria, attengono prevalentemente alle aree materno-infantile, anziani, handicap, patologie psichiatriche, dipendenze da droga, alcol e farmaci, patologie per infezioni da HIV e patologie in fase terminale, inabilità o disabilità conseguenti a patologie cronico-degenerative”. All’interno del Decreto si sottolinea che nel ‘Programma delle attività territoriali’ verranno determinate le risorse per l’integrazione sociosanitaria e le quote rispettivamente a carico dell’Unità Sanitaria Locale e dei Comuni, nonché la localizzazione dei presidi per il territorio di competenza (art. 3-quater). Viene inoltre illustrata, tra le funzioni del Distretto, quella dell’erogazione delle prestazioni sanitarie a rilevanza sociale, connotate da specifica ed elevata integrazione, nonché delle prestazioni sociali di rilevanza sanitaria se delegate dai Comuni (art. 3-quinquies).
  • Legge n. 328 dell’8/11/2000. Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali
    Nel tracciare un quadro di riferimento per la costruzione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali – sistema caratterizzato da livelli essenziali di prestazioni accessibili a tutti –, fa dell’integrazione sociosanitaria il perno attorno al quale tale sistema si sviluppa. L’articolo 22 vede l’integrazione sociosanitaria quale aspetto preliminare rispetto ai livelli essenziali delle prestazioni sociali; l’innovazione riguarda l’intero corpo dell’articolo, in particolare il comma 4, dove sono fissate le prestazioni da rendere disponibili per ciascun ambito territoriale. Tutto è subordinato a indirizzi regionali e soprattutto alla sostenibilità della spesa. L’aspetto innovativo è che tali prestazioni diventano diritti soggettivi da esercitare o rivendicare, se l’ente pubblico non offre alcuna risposta.
  • DPCM del 14 febbraio 2001. Atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni sociosanitarie
    Si sottolinea che l’assistenza sociosanitaria viene prestata alle persone che presentano bisogni di salute, che richiedono prestazioni sanitarie ed azioni di protezione sociale, anche di lungo periodo, sulla base di progetti personalizzati redatti sulla scorta di valutazioni multidimensionali. Le prestazioni sociosanitarie sono definite tenendo conto dei seguenti criteri: la natura del bisogno (aspetti inerenti le funzioni psicofisiche, la natura delle attività del soggetto e sue limitazioni, la partecipazione alla vita sociale, i fattori di contesto ambientale e familiare), l’intensità e du- rata dell’intervento (stabilite in base a fasi temporali che caratterizzano il progetto personalizzato, così definite: fase intensiva riferita a un impegno riabilitativo specialistico complesso, di durata breve o definita; fase estensiva: minore intensità terapeutica, di medio o prolungato periodo; fase di lungoassistenza: mantenere l’autonomia funzionale possibile e favorire la partecipazione alla vita sociale); la complessità dell’intervento (con riferimento alla composizione dei fattori produttivi, professionali e di altra natura, e alla loro articolazione nel progetto personalizzato). Le prestazioni sociosanitarie vengono caratterizzate nel modo seguente:

    a. Prestazioni sanitarie a rilevanza sociale: sono quelle che, erogate con- testualmente ad adeguati interventi sociali, sono finalizzate alla promozione della salute, alla prevenzione, individuazione, rimozione e contenimento di esiti degenerativi o invalidanti di patologie congenite o acquisite, contribuendo, tenuto conto delle componenti ambientali, alla partecipazione alla vita sociale e all’espressione personale. Di competenza delle ASL e a loro carico, sono inserite in progetti personalizzati di durata medio-lunga e sono erogate in regime ambulatoriale, domiciliare o nell’ambito di strutture residenziali e semiresidenziali.
    b. Prestazioni sociali a rilevanza sanitaria: le attività del sistema sociale che supportano la persona in stato di bisogno, con problemi di disabilità o di emarginazione condizionanti lo stato di salute. Di competenza dei Comuni, con partecipazione alla spesa da parte dei cittadini, si esplicano attraverso:

    • interventi di sostegno e promozione a favore dell’infanzia, dell’adole- scenza e delle responsabilità familiari;
    • interventi per contrastare la povertà nei riguardi dei cittadini impossi- bilitati a produrre reddito per limitazioni personali o sociali;
    • interventi di sostegno e di aiuto domestico familiare finalizzati a favo- rire l’autonomia e la permanenza nel proprio domicilio di persone non autosufficienti;
    • interventi di ospitalità alberghiera presso strutture residenziali e semi- residenziali di adulti e anziani con limitazione dell’autonomia, non as- sistibili a domicilio;
    • interventi, anche di natura economica, atti a favorire l’inserimento so- ciale di soggetti affetti da disabilità o patologia psicofisica e da dipen- denza, fatto salvo quanto previsto dalla normativa vigente in materia di diritto al lavoro dei disabili;
    • ogni altro intervento qualificato quale prestazione sociale a rilevanza sanitaria ed inserito tra i livelli essenziali di assistenza secondo la le- gislazione vigente.

Tali prestazioni, inserite in progetti personalizzati di durata non limitata, sono erogate nelle fasi estensive e di lungoassistenza.

c. Prestazioni sociosanitarie ad elevata integrazione sanitaria: quelle carat- terizzate da particolare rilevanza terapeutica e intensità della componen- te sanitaria, che appartengono prevalentemente alle aree:

• materno infantile;
• anziani;
• handicap;
• patologie psichiatriche e dipendenza da droga, alcol e farmaci;

• patologie per infezioni da HIV;

• patologie terminali;
• inabilità o disabilità conseguenti a patologie cronico-degenerative.

Tali prestazioni sono attribuite alla fase postacuta, caratterizzate dall’inscindibilità del concorso di più apporti professionali sanitari e sociali nell’ambito del processo personalizzato di assistenza, dalla indivisibilità dell’impatto congiunto degli interventi sanitari e sociali sui risultati dell’assistenza e dalla preminenza dei fattori produttivi sanitari impegnati nell’assistenza.

Sono erogate dalla ASL a carico del Fondo Sanitario; possono essere erogate in regime ambulatoriale domiciliare o nell’ambito di strutture residenziali e semiresidenziali e sono in particolare riferite alla copertura degli aspetti del bisogno sociosanitario inerenti le funzioni psicofisiche e la limitazione delle attività del soggetto, nelle fasi estensive e di lungoassistenza.

È compito delle Regioni, nell’ambito della programmazione degli inter- venti sociosanitari, determinare gli obiettivi, le funzioni, i criteri di ero- gazione e di finanziamento delle prestazioni sociosanitarie, svolgendo inoltre attività di vigilanza e coordinamento. La programmazione degli interventi sociosanitari avviene secondo i principi di sussidiarietà, coope- razione, efficacia, efficienza ed economicità, omogeneità, copertura fi- nanziaria e patrimoniale, continuità assistenziale. La programmazione dei servizi ad elevata integrazione sanitaria rientra nel ‘Programma delle atti- vità territoriali’. L’erogazione delle prestazioni è organizzata attraverso la valutazione multidisciplinare del bisogno, la definizione di un piano di la- voro integrato e personalizzato, e la valutazione periodica dei risultati ottenuti; le modalità ed i criteri di definizione dei progetti assistenziali personalizzati saranno disciplinati dalle Regioni.

  • DPCM del 29 novembre 2001. Definizione dei livelli essenziali di assistenza (allegato 3, punto d: “integrazione sociosanitaria, per la quale la precisazione delle linee prestazionali, a carico del Servizio Sanitario Nazionale, dovrà tener conto dei diversi livelli di dipendenza o non auto- sufficienza, anche in relazione all’ipotesi di utilizzo di Fondi Integrativi”). Viene ribadita l’importanza che riveste l’area dell’integrazione all’interno delle politiche destinate al sostegno e allo sviluppo dell’individuo e della famiglia e alla razionalizzazione dell’offerta di servizio, per poter garanti- re le prestazioni necessarie alle persone in tutte le fasi della vita, ed in modo particolare nell’infanzia e nella vecchiaia. Viene confermato che il riferimento fondamentale, sul piano normativo, è costituito dall’atto di indirizzo e coordinamento sull’integrazione sociosanitaria (DPCM 14/2/2001). La parte indicata in allegato 1, punto c (tabella riepilogati- va per le singole tipologie erogative di carattere sociosanitario), riprende infatti il DPCM: in tal senso le prestazioni indicate assurgono a livelli es- senziali delle prestazioni da garantirsi sul territorio dello stato in modo uniforme.

    L’erogazione delle prestazioni va regolata in riferimento ai criteri dell’appropriatezza, del diverso grado di fragilità sociale e dell’accessibilità. Il DPCM ritiene, inoltre, determinanti i punti seguenti:
    1. l’organizzazione della rete delle strutture di offerta;

    2. le modalità di presa in carico del problema, anche attraverso una valutazione multidimensionale;

    3. una omogenea modalità di rilevazione del bisogno e classificazione del grado di non autosufficienza o dipendenza.

Budget di salute: un dispositivo a sostegno del diritto a una vita autonoma

[Fonte: Welforum.it – Autori: Claudio Castegnaro e Diletta Cicoletti – 13 settembre 2017]

(Vedi articolo)

Questa fase storica presenta alcune questioni che restano centrali nella gestione degli interventi rivolti alle persone con disabilità (e non solo a loro), questioni che non sono certamente nuove e che ognuno tende ad affrontare dal proprio punto di osservazione (le Istituzioni, le organizzazioni, i servizi territoriali sociali o sanitari, le associazioni). Per affrontare questa pluralità di approcci può soccorrere uno strumento, Il budget di salute. L’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità afferma che il budget di salute è uno “strumento di definizione quantitativa e qualitativa delle risorse economiche, professionali e umane necessarie per innescare un processo volto a restituire centralità alla persona, attraverso un progetto individuale globale”. Il Budget di salute, o Personal Budget in consolidate sperimentazioni in diversi paesi europei, rappresenta una possibilità gestionale innovativa per favorire la domiciliarità, capace di riconfigurare il sistema di offerta di servizi interventi sociosanitari a partire dalla persona con disabilità e dalla famiglia, facendo perno sulle loro capacità di autodeterminazione e sulla possibilità di personalizzare l’assistenza in base alle proprie esigenze: di salute, cura, riabilitazione, abitative, occupazionali e relative alla socialità.

Per l’implementazione del budget di salute è necessario costruire percorsi integrati tra istituzioni e tra organizzazioni (pubbliche e private, sociali e sanitarie) nei diversi contesti sociali. E questo richiede uno spostamento consistente dalla logica prestazionale verso una progettualità che riguarda nel caso della disabilità la persona, la famiglia e i servizi. Ma spesso il progetto personale (o “individuale”, come dice la legge 328) da strumento di supporto diviene l’obiettivo ultimo verso cui si orienta il lavoro con le famiglie e la persona con disabilità. In questa interpretazione il lavoro si concluderebbe dunque una volta per tutte con la definizione del progetto. Le situazioni specifiche, personali e familiari, pongono tuttavia una serie di problematiche complesse e connesse tra loro, rendendo difficile una presa in carico risolutoria proprio perché i bisogni stessi sono mutevoli per definizione.

Come ci si attrezza allora per far in modo che i progetti personali siano strumenti guida in percorsi accidentati? In merito si evocano i case manager come operatori di riferimento per il singolo e la famiglia in grado di sostenere queste progettualità. Se il case manager è un operatore legato ad un’istituzione o ad una organizzazione può essere per lui faticoso sviluppare conoscenze e competenze di coordinamento e gestione della rete, reale o potenziale, attorno alla famiglia e alla persona. Oggi nelle scelte e decisioni delle famiglie intervengono però dati ed elementi informativi non sempre provenienti dal mondo dei servizi. Spesso le famiglie si aprono varchi, in autonomia o con il sostegno del mondo associativo, e organizzano le proprie progettualità fuori dal sistema dei servizi, soprattutto nelle fasi di transizioni (per esempio al compimento del 18esimo anno di età). Il case manager deve quindi assumere che anche le famiglie si informano attraverso canali propri e spesso tendono a definirsi self-funder, famiglie che fanno da sé.

Un secondo presupposto applicativo è la ricomposizione delle risorse professionali ed economiche in termini di prestazioni e servizi. In Italia si tratta di comprendere l’equilibrio nella responsabilità di gestione tra risorse pubbliche e private, regolando quanto sia opportuno e possibile lo spostamento del baricentro decisionale verso la persona con disabilità e/o i familiari. E’ attualmente un tema aperto, rilanciato grazie alla Legge 112 che incrementa le risorse a disposizione dei Comuni per la realizzazione di progetti di vita autonoma delle persone con disabilità (grave) e dà indicazioni sulla necessità di costruire budget integrati con risorse pubbliche, private e comunitarie, elementi fondamentali per costruire progetti sostenibili nel tempo.

1 – Integrare, collegare

L’area della salute mentale in Italia ha per prima sperimentato il budget di salute. Alcune evidenze possono essere trasferite ad altre aree di intervento, nell’idea che l’assett strategico centrale di sviluppo del budget possa essere l’integrazione (in primis sociosanitaria) tra diverse organizzazioni, istituzioni e risorse. Il progetto personalizzato è lo strumento di lavoro e di connessione tra saperi tecnici e domande/bisogni delle singole persone e delle famiglie ed è spesso legato a una fase del ciclo di vita o a un momento preciso coincidente con uno specifico problema emergente (per es. la transizione alla maggiore età).

In tema di integrazione tra sociale e sanitario occorre superare la tensione tra due poli: la sanitarizzazione del bisogno, da un lato, e l’assistenza poco orientata alla progettualità, dall’altro. Il budget può considerarsi come strumento strategicamente interessante che consente di “sconfinare” in mondi vitali come il lavoro, la casa, la formazione, la socialità.

Del budget di salute pensato a sostegno di un progetto personale hanno dato prova di poterne fruire persone che necessitano di percorsi integrati richiedenti, unitariamente, prestazioni sanitarie e azioni di protezione sociale, vale a dire “prestazioni sociosanitarie a elevata integrazione e con particolare rilevanza terapeutica”, contemplate nei LEA e riferite alle aree materno-infantile, anziani, disabilità, patologie psichiatriche, dipendenza da droga, alcool e farmaci, patologie per infezioni da HIV e patologie in fase terminale, inabilità o disabilità conseguenti a patologie cronico-degenerative (art.3 septies del Decreto legislativo 229/99).

Il modello budget di salute impiegato nella cogestione degli interventi sociosanitari integrati non sostituisce, ma al contrario integra, potenzia e rende più efficace la presa in carico degli utenti da parte delle Unità Operative del Servizio Pubblico. La funzione di case management poc’anzi richiamata appare componente imprescindibile nei modelli organizzativi-gestionali analizzati, collocabile lungo un continuum tra ottica prestazionale (si pianifica per rispondere a una domanda specifica) e ottica progettuale (si considera la persona con disabilità un soggetto da esplorare con il quale collaborare e cooperare). Oggi le famiglie si informano e decidono utilizzando diversi canali, pubblici o privati, formali o informali. Quali ruoli e competenze potrebbe assumere il case manager nel caso venisse chiamato a gestire un budget di salute?

2 – Capacità di ascolto

Nel corso delle nostre indagini abbiamo cercato di evidenziare cosa serve per avviare, con qualche possibile positivo sviluppo, percorsi progettuali tra famiglie e servizi. La capacità di ascolto ci sembra sinteticamente possa rappresentare un’esigenza non solo da parte delle famiglie e delle persone con disabilità, ma anche da parte degli operatori. Se usassimo la prospettiva del budget di salute partiremmo dalle domande delle persone per costruire progetti inediti, non fermandoci a ciò che il sistema può dare nella logica comune del collocamento presso una determinata unità d’offerta, ci orienteremmo invece verso l’integrazione di diversi “sistemi” e diversi interventi (abilitativi, riabilitativi, educativi, sociali, inclusivi) superando la logica prestazionale. Alcune esperienze di coprogettazione che coinvolgono famiglie e servizi rappresentano ambiti innovativi di progettazione integrata, perché mettono al centro l’ascolto reciproco, riducendo l’attesa e la pretesa di soluzione da parte di un solo soggetto (spesso i servizi, che devono trovare “la soluzione”). In questi casi si parla di ascolto dei desideri e delle legittime aspirazioni della persona con disabilità in affiancamento agli operatori dei servizi che possono mettere a disposizione competenze e risorse per comprendere quali margini di avvicinamento ci siano tra aspirazioni e fattibilità o sostenibilità dei singoli progetti.

3 – Ricomporre o riconvertire risorse

Le risorse organizzative, professionali e finanziarie possono assumere portate differenti se ricomposte ex-post o riconvertite, se sommate o riprogrammate sulla base di un obiettivo strategico condiviso. Bisogna quindi chiarire se si vuole puntare (solo) a de-istituzionalizzare le persone assistite, rimodulando l’utilizzo di flussi finanziari consolidati, oppure si ambisce a incidere sul piano della prevenzione/promozione in ottica di welfare comunitario e generativo?

Ancora una volta l’esperienza del budget di salute alla sua origine mostra alcuni aspetti interessanti: le risorse pubbliche, sanitarie, allocate per la residenzialità protetta diventano budget senza subire alcuna riduzione. La valutazione e la progettazione sono un ambito di co-costruzione che coinvolge terzo settore (il gestore), azienda sanitaria (responsabile del progetto riabilitativo/abilitativo) e persona con la sua famiglia. Il primo esito è l’indicazione di un livello di intensità che dà conto delle risorse allocabili per la specifica situazione e lo specifico progetto, il gestore si assume la responsabilità di sostenere il progetto dando opportunità e mettendo a disposizione risorse. Il costo della retta in residenzialità protetta coincide con il primo livello di intensità. Le risorse sono riconvertite per un utilizzo differente e più appropriato.

Altre esperienze attuative di budget di salute mettono in luce la possibilità che le risorse possano essere utilizzate perseguendo l’obiettivo generale della deistituzionalizzazione in accordo con la persona, la famiglia e i servizi. Il progetto di inclusione sociale utilizza così le risorse presenti sul territorio in termini di opportunità di lavoro, formazione, socialità. In questo caso le esperienze mostrano qualche fatica in più sul tema del coinvolgimento della comunità e dei diversi settori implicati, non sempre pronti ad attivare percorsi ad hoc e quindi con la necessità di costruire ogni volta una praticabilità e una sostenibilità non sempre scontate, visto che a ciascun attore è richiesta una messa a disposizione di risorse proprie per incrementare il budget personale.

4 – Diritto a possibilità flessibili

E’ necessario evitare di riprodurre il motivo “territorio che vai, budget che trovi”, ricercando equilibrio tra omogeneità dei percorsi e dell’offerta a livello territoriale e flessibilità e apertura necessaria a livello di risposte offerte sul singolo caso. Su questo ci sono oggettivi problemi legati ad una normativa nazionale che non agevola percorsi di equità territoriale, problemi che con la legge 112 sembrano essere assunti e resi più trattabili, anche se restano aree di discrezionalità attuativa, a livello regionale e di ambiti territoriali, che occorre tenere monitorati.

Secondo le ricognizioni portate avanti in occasione del seminario di Welforum, nonché guardando alla normativa e alla giurisprudenza, emerge chiaramente che il progetto personale per la persona con disabilità sia da considerarsi diritto esigibile, flessibile nel senso che non segue una linea fissa e uguale per tutti, ma che rende possibile la costruzione di un percorso di vita rispondente alle esigenze, ai desideri, alle necessità della persona, uscendo dalla logica puramente dell’assistenza, orientandosi maggiormente verso una riflessione che riguarda la vita nella sua complessità.

5 – Ruoli professionali

Se è vero che alcune delle condizioni necessarie per costruire progetti personali e budget di salute è la condivisione di strumenti e risorse tra persone/famiglie e servizi, è pur vero che è necessario e importante pensare ad una figura che svolga la funzione di garante nel sistema complessivo, una persona o un soggetto che abbia chiaro il proprio ruolo e che sia in grado di svolgerlo nell’ottica della cooperazione e della fiducia reciproca. Il case manager, come già evidenziato, potrebbe essere un mediatore, un coach, un amministratore oppure il responsabile del budget. Occorre riflettere ancora sul ruolo di questa figura professionale, oggi poco rintracciabile come chiaro e magari unico riferimento per la persona e la famiglia. Occorre pensare alle funzioni di coordinamento, come snodo della relazione tra famiglia/persona e servizi, e alla gestione che gli operatori possono assumere in un’ottica progettuale.

6 – Condizioni di sviluppo

Quattro condizioni “protettive” e facilitanti possono guidare referenti dei servizi, persone con disabilità, familiari e comunità locali intenzionati a implementare lo strumento del budget di salute o comunque a rendere sostenibile e fattibile il progetto personale di vita delle persone con disabilità: i) un’adeguata governance con necessaria copertura istituzionale (anche normativa); ii) una strategia delle alleanze e una logica di co-progettazione; iii) un sostegno alla libertà di scelta, come capacità e possibilità reale; iv) la possibilità di riconvertire le risorse pubbliche, integrarle con quelle private e comunitarie, superando le resistenze dei portatori di interesse.

Prospettive future

Gli approfondimenti realizzati in questi ultimi due anni hanno messo in luce che l’applicazione del budget di salute può essere più sostenibile e realizzabile in contesti piccoli, per esempio a livello di distretto socio sanitario. Le stesse associazioni delle persone con disabilità richiamano ad un’attenzione specifica affinché il budget di salute non si tramuti in budget di cura “a vita”: la prospettiva è infatti fortemente centrata sulla possibilità di realizzare una maggiore autonomia e indipendenza nelle scelte della vita. La presenza di linee guida che delineano i percorsi di accesso, valutazione e presa in carico non basta, occorrono verifiche lungo i percorsi assistenziali in modo che vengano rispettati alcuni passaggi fondamentali, considerando e coinvolgendo, ove opportuno, i familiari.

In questa fase l’attenzione di ricerca si orienta verso l’attuazione della legge 112, verso quanto le regioni hanno assunto e deliberato e verso possibili utilizzi di budget con un forte orientamento progettuale (budget di progetto). Quali sistemi di governance potranno essere istituiti vista la responsabilità gestionale degli ambiti territoriali e dei piani di zona? Quali orientamenti, requisiti, criteri di accesso prevarranno e, infine, quale ruolo potranno assumere famiglie, associazioni e persone con disabilità per costruire progettualità che seguano la temporalità, i desideri e i problemi presenti nella vita delle persone?

La valutazione multidimensionale

[Fonte: Careonline.it – Autori: Maurizio Marceca e Amina Pasquarella – 13 febbraio 2004]

(Vedi articolo)

La storia della medicina è costellata di momenti in cui, improvvisamente, la disciplina ha dovuto prendere atto di quanto non possa essere sufficiente a se stessa, nella misura in cui l’efficacia delle pur potenti soluzioni che è in grado di proporre – a fronte delle malattie che affliggono l’essere umano – dipende anche (talvolta fortemente) da variabili che le sono esterne, e in particolare da quelle di natura sociale. Gli studi epidemiologici hanno, infatti, dimostrato come per molte patologie il semplice contrasto dell’agente eziologico o la riduzione/contenimento del danno già prodotto non siano risolutori della situazione, quando non accompagnati da idonei interventi agiti sul contesto ambientale del malato.

Più recentemente, alla presa d’atto di questa necessaria interdipendenza dell’ambito medico con quello sociale in funzione dell’esito ricercato, si è aggiunta la cogente necessità di individuare gli approcci e gli ambiti assistenziali più appropriati per il singolo individuo trattato, sia in vista della migliore qualità di vita della persona sia in funzione della maggiore sostenibilità economica del caso.

L’approccio globale

La valutazione multidimensionale (VMD) rappresenta forse uno dei più riusciti esempi di ‘soluzioni’ che, nel coniugare la ricerca dell’appropriatezza clinica con quella dell’appropriatezza organizzativa, sanciscono l’irrinunciabilità di un approccio globale al paziente complesso, in vista di una personalizzazione dell’intervento che richiede una compartecipazione attiva di una serie di professionisti e attori anche esterni al mondo sanitario.

Non è un caso che l’alveo in cui questo approccio è maturato sia stato quello geriatrico, dal momento che, nelle società occidentali, la transizione demografica e la sempre maggiore rilevanza delle patologie cronico-degenerative ad effetto invalidante hanno fatto emergere sempre più l’anziano come il soggetto portatore per antonomasia di bisogni molteplici e complessi (situazione abitualmente riassunta con il termine di frailty, fragilità). Pur potendosene riconoscere le origini nel Regno Unito già a partire dagli anni ’30, nella sua evoluzione moderna questo processo ha avuto inizio nei primi anni ’80 in California, per opera di Rubenstein, cui viene unanimemente riconosciuto un contributo determinante tanto nella dimostrazione della necessità dell’approccio valutativo globale, quanto nella successiva messa a punto di efficaci strategie assistenziali.

Le sperimentazioni condotte dall’unità valutativa geriatrica da lui diretta hanno, infatti, dimostrato una significativa riduzione di mortalità, una minore ospedalizzazione e istituzionalizzazione e un minor decadimento dello stato funzionale e psicologico – oltre che minori costi assistenziali – nel gruppo sperimentale dei pazienti trattati sulla base di un piano di trattamento fondato sulla VMD rispetto al gruppo di controllo che aveva ricevuto un’assistenza tradizionale. Tali evidenze sono state sostanzialmente confermate anche da studi condotti in Italia.

In Italia, la VMD ha iniziato a diffondersi, sempre in ambito geriatrico, qualche anno più tardi, trovando un suo pieno riconoscimento nell’emanazione del Progetto Obiettivo “Tutela della salute degli anziani”, valido per il quinquennio 1991- 1995. Nello stesso ambito geriatrico essa ha continuato, attraverso il confronto scientifico e la ricerca attiva, il suo percorso, di cui è riprova l’importante lavoro di sistematizzazione realizzato con la stesura, ad opera di un gruppo della Società Italiana di Geriatria e Gerontologia (SIGG), delle “Linee guida sull’utilizzazione della valutazione multidimensionale per l’anziano fragile nella rete dei servizi”, presentate ufficialmente e pubblicate nel corso del 2001. Dallo specifico interesse della geriatria clinica, in particolare di natura ospedaliera, tale approccio sta iniziando ad estendersi progressivamente ad altre discipline mediche (igiene e sanità pubblica, oncologia, fisiatria, infettivologia, scienza dell’alimentazione, pneumologia, etc.) e settori assistenziali (in particolare quelli che configurano la rete dei servizi sanitari territoriali di competenza distrettuale) che, con la geriatria, condividono l’interessamento per categorie di pazienti accomunate da livelli medi o gravi di non autosufficienza (anziani con patologie croniche, pazienti oncologici avanzati, malati di AIDS, pazienti che necessitano di nutrizione artificiale, respirazione assistita, etc.).

Per tutte queste tipologie di soggetti è, infatti, essenziale, contestualmente alla caratterizzazione del bisogno assistenziale di natura strettamente clinica – da operarsi attraverso visite specialistiche e approfondimenti diagnostici di natura laboratoristica e/o strumentale – l’approfondimento relativo alle effettive capacità di autonomia del soggetto (concretamente indagate per le comuni attività della vita quotidiana), alle sue condizioni e possibilità economiche,

ai servizi/prestazioni di cui già usufruisce e alla rete di supporto assistenziale, formale o informale, attiva o attivabile. Non autosufficienza, complessità dei bisogni, globalità einterdisciplinarietà dell’approccio, personalizzazione dell’intervento e valorizzazione delle risorse attivabili sono i concetti chiave attorno ai quali è possibile tentare di elaborare una definizione di VMD (riquadro a sinistra). Schematicamente, le aree tematiche fondamentali, o ‘dimensioni’, che configurano la natura multipla della valutazione, sono rappresentate da: salute fisica, stato cognitivo (o salute mentale), stato funzionale, condizione economica e condizione sociale.

La valutazione, che concretamente si effettua sulla base della compilazione, cartacea o informatizzata, di liste di quesiti
(o item), si avvale dell’uso di cosiddette ‘scale’ di natura monodimensionale, ciascuna delle quali cioé approfondisce una singola area o una specifica articolazione di essa (piuttosto conosciute in ambito medico sono le scale ADL – Activities of Daily Living – e le scale IADL – Instrumental Activities of Daily Living, con i loro vari indici), o di ‘strumenti’ multidimensionali veri e propri, pensati per caratterizzare il soggetto nelle diverse aree di interesse: questi ultimi possono evidentemente contenere all’interno scale monodimensionali. Gli strumenti attualmente disponibili, descritti nel riquadro in basso, si differenziano in effetti per finalità, impostazione e capacità descrittiva.

Come utilizzare la VMD

La VMD può essere utilizzata per diversi scopi (che comportano livelli differenziati di analiticità e complessità degli strumenti da adottare) e in diversi contesti assistenziali e di ricerca. Usualmente, si parla di VMD di I livello, impropriamente definito di “screening”, laddove si intende indicare un’applicazione della stessa – auspicabilmente affidata al medico di medicina generale (MMG) – volta a differenziare, all’interno della popolazione esaminata (per lo più anziani), i soggetti sani in equilibrio stabile da quelli che presentano condizioni tali da essere soggetti ad un più o meno consistente rischio di rapido deterioramento della propria salute. Tale utilizzo della VMD è distinto da suoi impieghi di natura e caratteristiche più sofisticate, riferiti a soggetti con funzioni sicuramente compromesse; questo secondo utilizzo della VMD, cui deve necessariamente concorrere un’équipe multidisciplinare, detta unità valutativa– la cui composizione minima è data da un medico, un infermiere e un assistente sociale – è specificamente orientato al trattamento della persona attraverso la definizione delpiano assistenziale individualizzato (PAI). Non è necessario, e di frequente non è praticabile, che il momento della compilazione dei quesiti presenti nelle scale/strumenti coincida con quello dell’impostazione del PAI, ma mentre il primo può essere, eventualmente, svolto da un singolo operatore debitamente formato, per il secondo è indispensabile la collegialità multiprofessionale. Da essa deve inoltre scaturire, per ogni singolo paziente trattato, la figura che svolgerà il ruolo di coordinamento funzionale degli interventi previsti (case manager). All’équipe di base è inoltre opportuno si aggiungano, oltre al MMG del paziente
(o pediatra di libera scelta, se si tratta di minori), anche le figure medico-specialistiche di volta in volta necessarie sulla base delle problematiche prevalenti del paziente (cardiologo, geriatra, neurologo, psichiatra, etc.).
Tutti i dati che scaturiscono dalla VMD, oltre ad offrire l’orientamento per la risposta ai bisogni clinico-assistenziali del singolo individuo (e talora per l’allocazione assistenziale più appropriata), possono però fornire anche informazioni di carattere epidemiologico su larga scala, tali da permettere la definizione delle necessità assistenziali presenti e future (predittività) della comunità di interesse. In particolare, risulta di grande rilevanza la possibilità di dimensionare e caratterizzare per gravità l’area della non autosufficienza, consentendo così – per esempio, all’interno di una pianificazione sanitaria di livello regionale – una progressiva riorganizzazione dei servizi, anche sulla base di stime realistiche delle risorse da impiegare.

Come accennato, la VMD può, o meglio dovrebbe, essere utilizzata in tutti i cosiddetti ‘nodi’ della rete assistenziale, quali che siano i ‘percorsi’ cui va incontro ogni singolo paziente. È così che, nel caso di un episodio di ricovero scatenato da un evento acuto (per esempio, infarto miocardico, scompenso diabetico o frattura di femore) la VMD si offre come lo strumento ideale per realizzare una dimissione realmente “protetta” del soggetto, laddove consente di pianificare, attraverso la comunicazione tempestiva delle informazioni di maggiore interesse, il passaggio di presa in carico da parte dei servizi e delle strutture territoriali. La progressiva diffusione della VMD ha quindi, tra gli altri, il valore di contribuire al consolidamento di un linguaggio comune tra i diversi comparti assistenziali (offrendo, per esempio, la possibilità di percepire con immediatezza la situazione di un soggetto attraverso la comunicazione del punteggio da questi conseguito in una scala di autonomia). Viceversa, nel caso di un paziente già assistito da un servizio (per esempio, un ambulatorio cardiologico) che vada incontro ad un aggravamento del proprio livello di autonomia, la VMD può consentire, attraverso un corretto inquadramento delle sue caratteristiche e delle sue necessità, di attivare un’altra modalità assistenziale (per esempio, laddove non esistano alternative preferibili, la residenza sanitaria assistenziale). Inoltre, in caso di richiesta di assistenza rivolta da un cittadino o dal suo MMG ad un servizio, per esempio quello di assistenza domiciliare, la VMD può consentire, laddove siano stati precedentemente esplicitati i requisiti di ammissione (anche detti di eleggibilità) al servizio, di verificarne la sussistenza; tale verifica comporta evidentemente, oltre all’analisi delle dimensioni già menzionate, anche l’accertamento della compatibilità della situazione abitativa del soggetto a quella modalità assistenziale: non è infatti casuale che il ‘Piano Sanitario Nazionale per il triennio 1998- 2000’ citi espressamente la valutazione multidimensionale tra le condizioni necessarie per l’assistenza domiciliare integrata. Non sfuggirà, attraverso quest’ultimo esempio, come, in un servizio sanitario a finanziamento pubblico quale il nostro, la VMD rappresenti uno strumento di equità, laddove consente di valutare secondo criteri espliciti ed uniformi i bisogni dei soggetti che fanno richiesta di trattamento e su queste basi di fornire a tutti le risposte più appropriate.

La scelta della somma di scale o degli strumenti da utilizzare dipende essenzialmente dal contesto di somministrazione degli stessi, di norma legato a prevalenti tipologie di pazienti, e dagli obiettivi prioritari della VMD.

La situazione più tipica è quella della valutazione effettuata su soggetti anziani non autosufficienti e finalizzata tanto a stendere il piano di trattamento personalizzato, quanto a verificare l’allocazione assistenziale più opportuna. In generale, è possibile individuare una serie di requisiti, cioè di caratteristiche qualitative, che gli strumenti dovrebbero possedere (riquadro in alto).

In una fase di decentramento sanitario che, per insufficiente chiarezza e capacità di confronto e coordinamento, mostra consistenti rischi di produrre discriminazioni nella fruibilità dei servizi e delle prestazioni di Sanità pubblica, la capacità di consolidare il ricorso alla pratica di VMD attraverso l’utilizzo di strumenti omogenei, almeno a livello regionale, per l’accesso ai servizi, potrebbe garantire un’uniformità di approccio ai bisogni assistenziali e criteri trasparenti di allocazione nei servizi.

L’ICF: il nuovo approccio (inclusivo) alla disabilità introdotto dall’OMS

Le motivazioni che mi hanno indotto all’elaborazione del presente contributo derivano dalla constatazione, di una poco diffusa e spesso non adeguata conoscenza all’interno della nostra comunità professionale, del nuovo approccio culturale e metodologico alla disabilità proposto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità con l’ICF.
Mi permetto di affrontare tale tematica dal momento che come assistente sociale ho partecipato, in qualità di sperimentatrice, all’interno del Disability Italian Network, ai trials per la revisione di tale strumento. Esperienza di notevole valore professionale e personale che ha contribuito a consolidare in me la consapevolezza circa l’importanza di un approccio integrato biopsicosociale alla disabilità e pertanto interdisciplinare, in cui l’assistente sociale può apportare il proprio contributo relativamente agli aspetti di contesto e dei fattori ambientali.
Il modello proposto dall’ICF, infatti, superando la classica relazione menomazione/disabilità/handicap, descrive la disabilità come la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizione di salute di una persona, i fattori personali, e i fattori ambientali. Rappresenta, infatti, un capovolgimento di logica che pone al centro la qualità della vita delle persone affette da una patologia, e proponendo, inoltre, un modello biopsicosociale ed inclusivo della disabilità, riesce ad ovviare alla contrapposizione tra il modello puramente “medico” e quello puramente “sociale” di disabilità. L’ICF ha apportato una vera e propria rivoluzione culturale, in quanto non propone più una classificazione della disabilità, come accadeva con l’ICIDH del 1980, in base al quale, al danno anatomico o funzionale (minorazione), conseguivano, in modo lineare, l’incapacità della persona di svolgere un’azione o un compito, ed infine lo svantaggio esistenziale o handicap, ma propone una definizione di disabilità quale condizione di salute in un ambiente sfavorevole.
La portata innovativa di questa diversa lettura del corpo e della salute degli individui, risiede nell’approccio integrato nel quale, per la prima volta, si tiene conto dei fattori ambientali, classificati in maniera sistematica. Questa definizione fa comprendere che è stato superato il vecchio concetto che sosteneva che dove finiva la salute iniziava la disabilità e che aveva inteso le persone con disabilità un gruppo separato dal resto della società.
Passaggio culturale reso possibile grazie:

  • alla consapevolezza che qualunque persona in qualunque momento della vita può avere una condizione di salute che in un ambiente sfavorevole diventa disabilità;
  • al riconoscimento delle differenze e alla loro valorizzazione;
  • alla comprensione della nostra individuale multidimensionalità;
  • al ritorno a concepire il corpo come intero e non come insieme di organi;
  • all’elaborazione di riflessioni che ci hanno indicato quanto sia inscindibile la relazione che instauriamo con l’ambiente.

L’ICDH aveva fatto credere che le azioni per promuovere l’integrazione delle persone disabili, dovessero mirare alla riduzione del deficit e delle sue conseguenze quasi esclusivamente con interventi specialistici e di tipo biomedico. Ecco allora che l’ICF introduce il concetto di disabilità inteso come discrepanza tra le richieste ambientali e le prestazioni di un singolo individuo.
Si comprende come, in base a questa impostazione, la disabilità, non è più da intendersi come qualcosa di statico ed immodificabile, ma, viceversa, suscettibile di sostanziali modifiche mediante specifici interventi anche sul contesto. Inoltre, mentre la precedente classificazione era destinata alle persone disabili, l’ICF è invece uno strumento universale, rivolto a tutti gli individui, con l’obiettivo di misurare non solo la disabilità ma anche lo stato di salute di un individuo o dell’intera popolazione. Obiettivi che possono essere raggiunti studiando la persona nella sua globalità, senza trascurare l’ambiente in cui egli vive, con le sue risorse e le sue barriere. Con l’ICF, inoltre, abbiamo finalmente un linguaggio standardizzato, unificato, che consente la comunicazione in materia di salute e di disabilità in tutto il mondo e tra varie scienze e discipline. La diagnosi dello stato di salute o di disabilità viene formulata raccogliendo in primis le informazioni in merito alle strutture anatomiche e alle relative funzioni del soggetto da esaminare. Gli aspetti negativi del corpo prendono il nome di menomazione (termine con il quale si intende indicare il difetto o la perdita di una struttura corporea o di una funzione fisiologica). Di seguito, si raccolgono le informazioni inerenti al funzionamento personale e sociale dell’individuo, indicate con i termini di attività e partecipazione (Ove per attività si intende l’esecuzione di un compito o di un’azione da parte di un individuo, e per partecipazione, il suo coinvolgimento in una situazione di vita). Le restanti informazioni si riferiscono all’ambiente dove vive la persona. Informazioni che riguardano le tecnologie, i servizi presenti, gli aspetti architettonici, il sistema normativo, la cultura, etc. All’interno dell’ambiente è possibile individuare gli aspetti positivi, che facilitano l’attività e la partecipazione, e gli aspetti negativi, definiti barriere o ostacoli. I dati vengono raccolti in maniera indipendente per analizzare in seguito le associazioni e le relazioni sussistenti e misurare lo stato di salute globale.
Secondo quanto affermato dalla D.ssa Matilde Leonardi, l’ICF riflette i cambiamenti di prospettiva nella disabilità attraverso i suoi tre principi fondamentali: universalismo, approccio integrato, modello interattivo e multidimensionale del funzionamento e della disabilità. La parola handicap, che in uno studio condotto dall’OMS, ha connotazione negativa, non sarà più utilizzata. L’ICF può avere, pertanto, ricadute di grande portata sulla pratica medica e sulle politiche sociali e sanitarie internazionali. La disabilità non è il problema di un gruppo minoritario ma una condizione che ognuno può sperimentare durante la propria vita, e l’ambiente, quale fattore determinante nel definire la disabilità, può essere UNA BARRIERA o UN FACILITATORE. La medicina aveva, e forse ancora ha, la tendenza a scindere la “malattia” dalla persona che ne è affetta e dal contesto in cui questa vive, l’ICF, propone e rafforza, invece, l’approccio olistico, ed integrato tra sociale e sanitario alla persona.
Sarebbe auspicabile, quindi, che anche nella nostra categoria professionale si valutasse la possibilità di avviare specifici percorsi di approfondimento dell’ICF anche per individuare strumenti per la valutazione degli outcomes degli interventi effettuati dai vari servizi e soprattutto da quelli sociosanitari.